30 December 2014

Epoca: Ferrari Dino 246 GT

Il fissaggio delle ruote ai mozzi è sempre stata la discriminante principale nella definizione dell’estetica della Ferrari Dino 206, presentata al Salone di Parigi del 1967 come prototipo, rispetto alla sua seconda versione con il motore da 2,4 litri (e il passo allungato da 2.280 mm a 2.340 mm). I “puristi”....

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Il fissaggio delle ruote ai mozzi è sempre stata la discriminante principale nella definizione dell’estetica della Ferrari Dino 206, presentata al Salone di Parigi del 1967 come prototipo, rispetto alla sua seconda versione con il motore da 2,4 litri (e il passo allungato da 2.280 mm a 2.340 mm). I “puristi” da sempre sostengono che l’espressione più limpida e affascinante di questa berlinetta spinta dal V6 a 65° sia la prima serie, quella, cioè, da 1986,20 cc, con carrozzeria in alluminio e quegli splendidi gallettoni alle ruote, che nei parafanghi prominenti facevano tanto Sport Prototipo. Pochi sanno, però, che ci fu, per un breve periodo (tra il 1969 e il 1970), una soluzione in grado di mettere d’accordo entrambi i partiti: gli accaniti sostenitori della dura e pura 206 GT a passo corto, e i più sobri fan delle maggiori prestazioni e coppia della 246 GT, allungata.

Interim

In pochi esemplari (la vettura del nostro servizio è uno di questi) fu prodotta una versione che potremmo definire “interim”, con i requisiti meccanici e di carrozzeria della 2.4, ma con gli splendidi gallettoni centrali ad abbellirne e renderne più affascinante l’estetica. Le prime 357 Dino 246 GT prodotte, dotate del motore da 2.419,20 cc, facevano ancora parte della prima serie, Tipo 607 L, tra cui erano annoverate anche le 206 GT (telai fra il #00402 GT e il #01116 GT), e avevano caratteristiche estetiche praticamente identiche alle berlinette 206 GT, salvo per quanto riguarda, come detto, la lunghezza del passo (e quindi del telaio, allungato di 60 mm in corrispondenza della zona fra la porta e il passaruota posteriore) e il tappo del serbatoio, che non era in alluminio, ed era nascosto da una paratia mobile sul montante posteriore sinistro della vettura.

 

C’è poi il cofano posteriore più lungo, dovuto all’allungamento del telaio ma anche, si dice, all’esigenza di semplificare le operazioni di manutenzione, che sulle 206 spesso richiedevano lo smontaggio del motore causa spazio di manovra esiguo. La carrozzeria delle berlinette 246 “interim” non era tutta in alluminio come quella delle 206 GT, ma in più economica lamiera: in lega erano soltanto i cofani e le porte. Grazie al motore più affidabile rispetto al primo 2 litri, alle maggiori prestazioni e all’estetica simile alla prima serie, queste 357 berlinette rappresentano “l’uovo di Colombo” per gli incontentabili dell’estetica e delle prestazioni della piccola di Maranello, che per la Ferrari segnò l’inizio di una nuova era: quella del passaggio al controllo azionario da parte del gruppo Fiat, avvenuto nel 1969. Due anni prima c’era stato un precedente, sempre nel nome del figlio di Enzo Ferrari: la Fiat Dino, GT coupé/spider di Torino con il V6 di 65° del Cavallino montato all’anteriore. Una macchina che permise a Maranello di produrre i 500 motori necessari all’omologazione per le gare di F2.

ANIMA RACING

Il nome prescelto per questo progetto comune è quello del figlio prediletto di Enzo Ferrari, che morì nel 1956 per la distrofia muscolare e aveva preso parte al progetto di un motore 6 cilindri, che fu poi montato, nelle sue varie evoluzioni, su molte auto da competizione della Ferrari, siglate per l’appunto con questo nome (Dino 156 F2, Dino 206 SP, Dino 246 F1 e Tasmania). La “Dino”, quindi, era figlia delle corse e dei nuovi regolamenti delle competizioni di F2, che imponevano l’adozione di motori prodotti in almeno 500 esemplari. Il motore della Dino stradale (ovviamente modificato rispetto a quello impiegato nelle corse), era il primo sei cilindri di serie prodotto a Maranello, e fu progettato per soddisfare queste nuove norme regolamentari.

 

Questo stesso motore, con le modifiche di cui si è parlato, fu poi impiegato anche sulle Dino Fiat, Coupè e spider, che furono assemblate, in un primo tempo, nella catena di montaggio della fabbrica di Maranello. La Dino portò anche a un cambiamento nelle sigle di riconoscimento delle vetture di Maranello: nel suo nome, infatti, i primi due numeri indicavano (tolti due decimali) la cilindrata, e l’ultimo il numero dei cilindri, mentre in precedenza il numero che identificava il modello era più semplicemente riferito alla cubatura unitaria di ogni cilindro. La Dino è stata inoltre la prima espressione di un profondo cambiamento a livello estetico e meccanico, essendo a tutti gli effetti la prima Ferrari stradale a montare un 6 cilindri posteriore trasversale.

 

Nuovo stile

Questa nuova impostazione meccanica, portò come conseguenza una profonda rivoluzione anche nello stile, che Pininfarina delineò con grande abilità. Le forme tonde e compatte di questo piccolo gioiello dello styling sono rimaste un canone estetico indelebile nella storia delle auto sportive. I parafanghi anteriori di questa berlinetta, sinuosi e bombati, hanno senza dubbio un fascino che ricorda i prototipi da competizione che la Ferrari portava in pista in quegli anni, così come la sua calandra profilata e sporgente, che delinea un frontale davvero aggressivo nella sua splendida eleganza.

 

La Dino, poi, fu la prima Ferrari prodotta in serie sulla quale comparivano le derive posteriori laterali, che collegavano armonicamente il lunotto verticale con l’ampio cofano posteriore orizzontale. Un accenno di questa geniale soluzione estetica era comparso su alcune auto da competizione prodotte in precedenza dalla Ferrari, quali la 250 LM, e in un caso sporadico anche sulla Ferrari 375 MM speciale di Pininfarina, costruita in esemplare unico per il regista Roberto Rossellini, meglio conosciuta come “la Ferrari di Ingrid Bergman”. Il primo prototipo che prefigurava le forme della Dino,era stato presentato al salone di Parigi del 1965, con il nome “Dino Berlinetta Speciale”, montava un motore 6 cilindri di 1600 cc, con basamento Ferrari e testa a due candele per cilindro, e aveva il muso molto rastremato, rivestito da un’ampia carenatura in plexiglass, che avvolgeva la fanaleria anteriore. Il secondo prototipo, che si avvicinava molto a quelle che sarebbero state effettivamente le linee definitive della Dino, fu esposto, invece, al Salone di Torino, nel 1966, denominato Dino Berlinetta GT. La produzione della Dino iniziò nel 1968, con la 206 GT: la vettura era dotata, come detto, di una carrozzeria in alluminio con linee molto arrotondate e filanti, che sembravano disegnate dal vento, e finivano in una coda tronca come le più recenti tendenze aerodinamiche imponevano.

EMOZIONI

I cerchi in lega della Cromodora erano dotati di fissaggio centrale tramite un classico gallettone cromato, molto affascinante e “corsaiolo”. L’ottimale distribuzione dei pesi, con il motore montato al posteriore in posizione centrale, garantiva alle Dino una notevole tenuta di strada, ponendole ai vertici della loro categoria. Accomodarsi oggi nell’abitacolo di una Dino è un’esperienza affascinante che richiama l’atmosfera agonistica. Le due gobbe arrotondate dei profili dei parafanghi anteriori, ai lati del parabrezza, danno l’impressione di essere al volante di una Sport Prototipo anni ‘60, e la posizione molto inclinata e… rasoterra del sedile, accentua questa appgante sensazione.

 

La “Ferrarina” dispensa emozioni: il suono metallico e invadente del motore sei cilindri (nel nostro caso il 2.4 da 195 CV) è inebriante. Il cambio, da manovrare nella spettacolare griglia a selettori, ricorda le trasmissioni delle Ferrari da gara di quei tempi. Le marce ben scalate con la quinta piuttosto corta, mantengono il motore sempre in tiro, facendolo cantare al meglio. L’agilità della vettura è ottima, lo sterzo, molto diretto, dà la sensazione di avere la strada in mano. Il motore centrale-trasversale garantisce un assetto molto equilibrato a questa berlinetta, e guidarla sul misto stretto è un’esperienza inimitabile. Nonostante la potenza non esuberante, la Dino 246 GT, anche per il peso contenuto in 1080 kg a vuoto, garantisce sensazioni di guida da vera granturismo, ed è in grado di raggiungere velocità di punta piuttosto elevate (245 km/h), con una buona accelerazione sullo spunto 0-100 km/h (7,2 secondi). I nei di quest’affascinante berlinetta sono la frenata, non proprio eccezionale, e, nella stagione estiva, la difficoltà di smaltire il calore nell’abitacolo (non c’è condizionatore che tenga!) e nel bagagliaio: Schedoni, l’artigiano che confezionava le valigie per le Ferrari, per questo modello preparò un set trattato in modo speciale proprio per resistere al calore. La 246 GT del nostro servizio (della serie Tipo 607 L), fu seguita, a fine 1970, dalle 246 GT della serie Tipo 607 M, quelle definitive (telai dal #01118 al #02130, costruiti nel 1971), che montavano i nuovi cerchi Cromodora con fissaggio a 5 bulloni, senz’altro meno affascinanti, e furono allestite con nuovi interni, più dotati di accessori.

 

Infine, arrivarono le ultime serie, le Tipo 607 E (telai dal #02132 al #08158, costruiti dal 1971 al 1974), fra le quali fece la sua comparsa anche una versione scoperta, denominata 246 GTS, dotata di un tettuccio rigido asportabile di tipo “targa”, e di un piacevole montante centrale, con tre eleganti feritoie verticali per lo sfogo d’aria dell’abitacolo. La Dino fu senz’altro una berlinetta diversa da tutte le precedenti Ferrari prodotte, e il suo “passaggio” lasciò un segnò profondo nella storia della Ferrari, influenzando lo stile di molte sportive di Maranello degli anni seguenti.

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