Alfa Romeo Giulia TZ, disegnata dalla fantasia e dal vento

L’Alfa da corsa bella come una dream-car e guidabile come una GT nacque nel 1963 al tavolo di un ristorante milanese, dopo una gestazione durata cinque anni. Ecco la storia, gli antefatti, i numeri e le affermazioni di una delle più affascinanti supercar del Biscione

I PROTAGONISTI

La decisione fu presa in una sera di fine inverno del 1963, durante una “rimpatriata” fra dipendenti ed ex dell’Alfa Romeo, a un tavolo della trattoria Colline Pistoiesi in via Amedei a Milano. Personaggi e interpreti: l’ingegner Carlo Chiti, passato dall’Alfa Romeo alla Ferrari e quindi all’ATS; l’ingegner Ludovico Chizzola, divenuto concessionario Innocenti a Feletto Umberto (Udine) dopo avere lavorato per l’Alfa Romeo e la Ferrari; e Gianni Chizzola, fratello di Ludovico, che occupava in Alfa Romeo il posto che era stato in precedenza del fratello. A Carlo Chiti toccò l’onore della frase storica, che pronunciò dopo avere riempito di Chianti i bicchieri dei commensali per un brindisi benaugurante: “Ovvìa, ci si pensa noi”. A che cosa si riferiva con quel proposito espresso con tanta programmatica determinazione il corpulento e sanguigno tecnico toscano? A un’iniziativa tanto semplice sulla carta quanto complessa sul piano pratico: tradurre in realtà il progetto Alfa Romeo 105.11. Cioè, riuscire a mettere in produzione quella che si sarebbe trasformata in una tra le Gt del Biscione più famose e ammirate di tutti i tempi: la Giulia TZ. Una storia, quella dell’Alfa Romeo Giulia Tubolare Zagato (questa la “soluzione” dell’acronimo della sigla) che in realtà era iniziata qualche anno prima. In effetti, un’Alfa Romeo con un telaio tubolare concettualmente molto simile a quello della TZ era già stata realizzata nel 1958. Ma in quegli anni i dirigenti dell’Alfa non volevano impegnare in prima persona la Casa nella realizzazione in piccola serie di una vettura stradale da corsa: un po’ per non distrarre uomini ed energie dalla produzione di serie (il programma Giulietta era da poco arrivato a funzionare a pieno regime), un po’ anche per scansare i rischi di un eventuale insuccesso. La voglia di tornare alle corse con un vero modello da competizione, tuttavia, rimaneva, ed era forte. Così la Casa del Portello cercò un accordo con Carlo Abarth, che avrebbe potuto realizzare e produrre la vettura in nome e per conto della Casa dl Portello: Mario Colucci, tecnico del Biscione, fu effettivamente inviato alla factory torinese dello Scorpione, dove mise a punto il bel telaio a traliccio tubolare robusto e leggero (50 kg) che avrebbe debuttato sotto la pelle in alluminio del prototipo Alfa-Abarth 1000 al Salone di Torino nel novembre 1958.

LA NASCITA DEL PROGETTO

Problema risolto, dunque? Macché: proprio mentre la piccola sportiva con telaio tubolare era in lavorazione, un paio di Abarth derivate dalla 500 avevano stabilito all’Autodromo di Monza una serie di record internazionali. Il che aveva impressionato a tal punto la Fiat, sicura del traino sulle vendite che una più regolare attività sportiva delle sue vetturette avrebbe assicurato, da spingerla a impegnare Carlo Abarth con una specie di collaborazione in esclusiva. Per quanto riguardava la neonata Alfa-Abarth, quindi, gioco fermo e palla al centro. Dalle ceneri di quel primo prototipo, tuttavia, un altro dei tecnici “storici” del Biscione, Giuseppe Busso, sviluppò comunque un progetto (siglato 105.10) relativo a una biposto sport 1300 con motore derivato Giulietta con carter secco, albero a gomiti su cuscinetti a rulli e doppia accensione. Trattandosi di un’auto da corsa, parve logico affidare la carrozzeria a Zagato. Ercole Spada, stilista della storica Carrozzeria milanese, disegnò in prima battuta una spider tondeggiante, ma di lì a poco l’esperienza acquisita nelle corse gli fece capire che per le code tonde la musica era finita. Spada operò allora una completa revisione stilistica che portò a superfici più pulite e alla caratteristica coda tronca, con gli appoggiatesta dei passeggeri prolungati con sezione quasi costante fino al posteriore. Intanto, nella meccanica cambiavano i freni: da quattro tamburi a quattro dischi, con i posteriori inboard, disposti cioè all’uscita del differenziale.

 

Nell’ottobre del 1961 la 105.10 era pronta, ma ancora (una volta di più) non si sapeva chi avrebbe potuto costruirla. Di lì a poco nasceva la Giulia, e al motore 1300 a carter secco fu sostituito il 1600 del nuovo modello. La sigla del progetto si trasformò così in 105.11 mentre (probabilmente proprio in questo passaggio) il telaio veniva irrobustito con due file di tubi invece di una sola nei reticoli laterali. Relativamente alla carrozzeria, prove comparative fra la spider originale e la stessa dotata di un hard-top aerodinamico rivelarono la superiorità della seconda soluzione. Si optò quindi per una carrozzeria chiusa. Ercole Spada ridisegnò allora la “Tubolare” come coupé, approdando a una configurazione simile a quella che conosciamo oggi, ma con fanali e coda differenti. A proposito dei fanali, Spada ricorda oggi che le fumose norme applicative del Nuovo Codice della Strada complicarono non poco la scelta. Per le prove questo aspetto era secondario, così il primo prototipo adottò fari tondi carenati e lampeggiatori lunghi a goccia, probabilmente giacenti presso la Zagato come campionatura della tedesca Hella. Nel modello definitivo Spada inserì invece fari rettangolari della francese Cibiè ed economicissimi lampeggiatori Carello presi a prestito dal motocarro Innocenti Lambro (il “fratello” da fatica della popolare Lambretta). Un’ulteriore modifica rispetto al disegno originale ebbe per oggetto la coda, che aveva il labbro terminale rivolto verso l’interno, e avvenne a seguito di ulteriori prove condotte da Elio Zagato, eccellente gentleman-driver oltre che imprenditore, dallo stesso Ercole Spada e dal collaudatore dell’Alfa Romeo Guido Moroni. Quei test mostrarono che rivolgendo il labbro verso l’esterno si ottenevano un piccolo miglioramento nella velocità massima (1,5 km/h) e nella stabilità del retrotreno. Nella sua veste definitiva, ma ancora senza un effettivo ok per la produzione in serie, il progetto 105.11 debuttò al Salone di Torino nel novembre 1962 con la denominazione commerciale di Giulia TZ.

L’INCERTEZZA DI ALFA

Una presentazione così ufficiale lasciava intendere che la produzione fosse imminente: nella realtà dei fatti regnava ancora l’incertezza to in gran considerazione dalla Direzione Alfa Romeo, chiese e ottenne di tradurre in realtà l’idea lanciata nella cena con gli amici. Inizialmente l’Alfa Romeo ipotizzò di utilizzare le strutture della ATS di Bologna, dove Chiti era occupato in via principale, ma la decisione finale portò alla scelta di una struttura che Ludovico Chizzola aveva annesso alla propria concessionaria Innocenti. La società fra Chiti e Ludovico Chizzola per produrre la TZ nacque con atto notarile del 4 marzo 1963: per battezzarla Gianni Chizzola suggerì il nome Delta (lettera alfabetica greca con grafia a triangolo), considerando il triangolo che si veniva a formare fra Bologna, sede dell’ATS, Feletto Umberto, sede della neonata società, e Milano, patria storica dell’Alfa Romeo. La produzione della TZ prevedeva un iter piuttosto complesso: il telaio tubolare veniva fabbricato dalla Società Aeronautica Italiana Ambrosini di Passignano sul Trasimeno, in provincia di Perugia; i motori, i cambi e altre parti meccaniche provenivano dall’Alfa Romeo; i freni arrivavano direttamente dal fornitore inglese; altri fornitori consegnavano direttamente gli ammortizzatori e le trasmissioni; ai particolari in electron provvedeva l’industria motociclistica Gilera di Arcore, a due passi da Monza; infine, Zagato forniva le carrozzerie abbigliate. L’Auto Delta componeva il puzzle aggiungendovi di suo pochi componenti realizzati in loco da artigiani friulani. La produzione della Auto Delta (divenuta poi Autodelta S.p.a. il 30 novembre 1964) saltò le TZ con telai #001 e #002, costruite direttamente dall’Alfa Romeo presso la propria DiPreEspe (Direzione Progettazione ed Esperienze). La produzione a Feletto Umberto si stabilizzò sulle 5 auto a settimana, con l’obiettivo di completare all’inizio del 1964 i 100 esemplari necessari per l’omologazione nella categoria GT.

 

Nell’attesa dell’omologazione, la TZ debuttò in gara con due esemplari il 10 novembre 1963 nel Tour de Corse, ma entrambi si ritirarono per incidente. Due settimane dopo, nella Coppa FISA a Monza, quattro TZ ottennero i primi quattro posti nella categoria Prototipi. Bel risultato, anche se la loro unica avversaria degna di questo nome, la Condor Aguzzoli con motore Alfa Romeo posteriore, aveva dichiarato forfait, e a quel punto l’unico altro concorrente era il regolarista Fernando Tecilla con una Innocenti IM3 diventata Prototipo solo per aver montato due carburatori... L’anno seguente, regolarmente omologata nella categoria Gran Turismo, la TZ cominciò invece a dire la sua in pista vincendo la propria classe nella 12 Ore di Sebring, nella 24 Ore di Le Mans, nella 1.000 chilometri del Nürburgring, alla Targa Florio, al Circuito del Mugello, insomma nelle più importanti competizioni internazionali del Campionato GT, senza lasciarsi sfuggire la vittoria assoluta nella Coupe des Alpes e una miriade di successi in gare in salita. La collana di successi continuò nel 1965, fra le GT con le TZ nelle mani di piloti privati e con le nuove TZ2 (ma nella categoria Sport) con la squadra ufficiale: la TZ2 era la naturale evoluzione della TZ rivista nel telaio abbassato, nel motore con carter secco, nella misura dei pneumatici e nella carrozzeria più bassa e larga. Tutto sembrava filare alla perfezione quando, nel 1966, arrivò il nuovo regolamento sportivo internazionale, che elevava a 500 il numero degli esemplari da costruire per ottenere l’omologazione nella categoria GT e a 50 quelli necessari per la categoria Sport: la TZ si trovò così infilata d’ufficio nella categoria Sport e la TZ2 nella categoria Prototipi, e in entrambi i casi il confronto diventava impari. Nonostante tutto nel 1966, ultimo anno di corse ufficiali con la TZ2, l’Autodelta raccolse nuovi successi. Dopo il 1966 l’Autodelta, ormai trasferitasi a Settimo Milanese (in via Enrico Fermi 7) e trasformatasi a tutti gli effetti nel reparto corse dell’Alfa Romeo, avrebbe concentrato le proprie attenzioni sulle GTA, concepite per dominare nella categoria Turismo e quindi di maggiore supporto per le vendite delle Alfa di grande serie, oltre che sulle 33, vere e autentiche sport-prototipo (vedere Automobilismo d’Epoca n. 1-2005), mentre le sorti agonistiche della TZ sarebbero rimaste affidate ai numerosi piloti privati che avrebbero continuato ancora a lungo a correre (e a vincere) nei campionati nazionali e nelle corse in salita. L’Alfa Romeo Giulia TZ recitò, fra le supersportive di medio calibro, un ruolo analogo a quello che Ferrari 250 GTO aveva sostenuto tra quelle di vertice: entrambe gettate nella mischia come ultime espressioni vincenti dell’architettura del motore anteriore nelle auto da corsa, entrambe vincenti a lungo e capaci di segnare la propria epoca. Anche se, per onestà di cronaca, occorre osservare che nelle ultime gare le TZ superstiti, forzate dal regolamento nella categoria Sport e portate in gara “a oltranza” da appassionati volonterosi ma non più competitivi, finivano per fare da stridente contrasto a una nuova generazione di bassissime e asciutte Lola, Chevron, GRD e Abarth-Osella. Ma è altrettanto evidente che i successi avrebbero potuto (e forse anche dovuto) essere molto più copiosi e duraturi se la TZ avesse potuto debuttare un paio d’anni prima.

LE TZ SPECIALI

Già nella produzione di serie della TZ le differenze sono così frequenti da permettere quasi di considerare tutte le Tubolare Zagato alla stregua di altrettante fuoriserie. Alcune TZ, però, sono “più diverse” delle altre. La #107 e la #108, per esempio, sono state carrozzate in vetroresina della Vetreria Italiana Balzaretti e Modigliani. La #108 è nata così, l’altra è stata invece ricarrozzata all’epoca. A parte il materiale , l’estetica di entrambe è quella delle vetture standard perché lo stampo è stato copiato da una TZ metallica. Un caso a sé è rappresentato, poi, dalla piccola serie delle TZ 2 (9 esemplari, compreso il prototipo), la cui linea disegnata da Ercole Spada per Zagato è più bassa e armonica grazie all’adozione del carter secco per la lubrificazione del motore, di nuovi cerchi e di un telaio rivisto specialmente nel passaggio dei tubi di scarico e del piantone dello sterzo, inserito sotto la centinatura trasversale della plancia invece che sopra.

 

La Canguro di Bertone e la Giulia 1600 Sport di Pininfarina sono invece pezzi unici: fuoriserie, come si diceva allora, o concept-car, come si direbbe oggi. Entrambe sviluppano il tema dell’aerodinamica. Anche se si tratta ancora di aerodinamica elaborata e sviluppata intuitivamente: la galleria del vento di Pininfarina verrà avviata solo nel 1972, quella della Fiat nel 1976. La Canguro, in ogni modo, condensa tutti gli elementi del prodotto aerodinamico: superfici morbide, nessuna sporgenza e cristalli a filo. Il frontale è in pezzo unico, come nelle altre TZ, ma qui il cofano è animato dal morbido movimento delle creste dei parafanghi che si alzano sui bordi. Singolare è il taglio delle porte: molto avanzato e con la finestratura che si estende fino al padiglione per dare luminosità all’abitacolo ed equilibrio alla fiancata. Le superfici vetrate sono caratteristiche per la continuità , che non provoca fratture nel disegno d’insieme. Questo sottintende un nuovo modo di procedere: invece di fissare la forma del parabrezza per poi costruirci attorno la carrozzeria, come usava allora, qui è stata definita prima la forma globale, poi sono stati tracciati i profili dei vari elementi trasparenti, che hanno tutti superfici molto arrotondate, quindi difficili da ottenere senza l’intesa perfetta che Bertone aveva con i suoi “vetrai”. Il padiglione a cupola della Canguro è perfettamente integrata col parabrezza “sferico”. Il tergivetro a doppio braccio è un dispositivo da corsa, ma qui è imposto dalla forte curvatura del parabrezza. I cristalli, i fanali e il lunotto sono incollati alla scocca con un procedimento, allora nuovo, che avvantaggia l’aerodinamica, il peso, la robustezza e lo stile. Nella coda la sezione a forme sovrapposte configura un aggraziato ellissoide triangolare: un riuscito contrasto con l’aggressività dell’anteriore. La Canguro è concepita come sportiva estrema, ma senza rinunciare al pregio estetico e senza troppi sacrifici per l’abitabilità e il comfort. L’assetto e l’aspetto sono influenzati dalle ruote di differente diametro (da qui il nome Canguro, con una chiara allusione alle zampe posteriori del marsupiale molto più sviluppate delle anteriori). I soli elementi decorativi, oltre la calandra, sono i quadrifogli sui montanti posteriori: ma a loro volta sono elementi funzionali, in quanto celano le griglie regolabili per la ventilazione dell’abitacolo. La Canguro ottenne grandi consensi di critica e di pubblico al Salone di Parigi del 1964. Con il senno di poi e le esperienze nate nelle gallerie del vento si é scoperto che la forma del musetto creava una forte portanza, con conseguente tendenza al sollevamento alle forti velocità: probabile concausa dell’incidente che ha semi-distrutto la Canguro. Non ha avuto più fortuna la Giulia 1600 Sport, presentata da Pininfarina al Salone di Torino del 1965. In questo caso non c’è stato nessun incidente, ma la sfortuna si è materializzata nella Dino 206, che ha debuttato nella stessa occasione oscurando completamente la Giulia 1600 Sport. Nella TZ di Pininfarina il ricco gioco di linee convesse non trova compensazione in concavità o in altri volumi contrari, perciò l’aspetto finale è quello di una specie di disco volante con esagerati sbalzi anteriore e posteriore, resi necessari per mantenere la linea a ellisse in presenza del passo corto e dell’abitacolo volutamente ampio. Probabilmente la Giulia 1600 Sport è stata costruita per sondare l’opinione pubblica sui concetti da applicare eventualmente alla non ancora nata spider Duetto. Nella realtà la Giulia 1600 Sport non piacque: il cofano era troppo spinto in altezza e in lunghezza e l’ampio abitacolo aveva un aspetto disarmonico, quasi da 2+2. Si aveva l’impressione di un’auto larga e sproporzionata. Probabilmente se ne accorsero anche gli stilisti di Pininfarina, che cercarono di limitare l’impressione di eccessiva larghezza tracciando la banda colorata longitudinale che caratterizza la vettura. Nella vista laterale le curve della linea dei parafanghi e gli spigoli sulle fiancate  (i famosi “diedri” di Pininfarina) creavano tante piccole aree di lamiera capaci di alleggerire l’aspetto pesante del comparto passeggeri. Alla fine la parte più convincete del progetto, l’unica soluzione poi adottata per la Duetto, è rappresentata dai paraurti anteriori disegnati ponendo i lobi della calandra Alfa Romeo in negativo: in altre parole creando una zona d’ombra all’esterno dei lobi, non all’interno, in modo da dare ai paraurti quell’evidenza che altrimenti non avrebbero avuto con lo sfondo chiaro. Altri dettagli convincenti sono le maniglie delle porte incassate e il portello del baule che include il lunotto per migliorare, come nelle due volumi moderne, l’apertura e l’accesso al bagagliaio.

AUTODELTA, STORIA BREVE MA INTENSA

La società Auto Delta nacque a Tavagnacco di Feletto Umberto (UD), con sede in via G. Galilei 9/3, il 15 marzo 1963, dall’accordo dei due soci paritari Carlo Chiti e Ludovico Chizzola, entrambi ingegneri con trascorsi all’Alfa Romeo. Scopo sociale dell’azienda era la produzione del modello 105.11 (Giulia TZ), la cui produzione iniziò effettivamente nel maggio dello stesso anno con l’esemplare #004. Il primo cambiamento avvenne convenzione del 5 ottobre 1964, quando l’Auto Delta allargò la propria attività alla costruzione di prototipi, all’elaborazione meccanica e alla partecipazione a competizioni, con l’accordo di trasformare al più presto la società in nome collettivo in società per azioni.

 

La trasformazione in S.p.A. avvenne con la nuova ragione sociale Autodelta (una sola parola) con atto del 30 novembre 1964 registrato a Codroipo l’11 dicembre 1964. La sede legale rimase a Tavagnacco di Feletto Umberto, ma gli uffici amministrativi e commerciali vennero trasferiti a Settimo Milanese (MI) in via Enrico Fermi 7. Nel 1965 il lavoro a Tavagnacco rallentò, mentre l’attività di ricerca si spostò tutta a Settimo Milanese. Qui si realizzò l’intero programma TZ2 e si gettarono le basi per la 33. Carlo Chiti nel frattempo aveva cessato l’attività per l’ATS, dedicandosi a tempo pieno all’Autodelta. Ludovico Chizzola, invitato a trasferirsi a Settimo Milanse, volle invece rimanere a Tavagnacco, dove peraltro l’attività continuò a scemare fino alla messa in liquidazione della società, che avvenne nel 1966. Dalle ceneri dell’Autodelta nacque il Reparto Corse dell’Alfa Romeo, che rimase tale fino all’ingresso della Fiat nella proprietà della casa del Portello, il che pose termine all’autonomia dell’Alfa nell’attività sportiva (e non solo…).

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