Dagli Stati Uniti arriva un bellissimo filmato. Anche se commerciale, è un piccolo capovaloro per appassionati, imperdibile. Con l’occasione ne approfittiamo per riproporre di seguito la bella intervista che Maria de Filippis concesse al nostro Dario Mella, pubblicata su Automobilismo d’Epoca di Febbraio 2010.
Maria Teresa de Filippis era soprannominata “il pilotino”, per il fisico minuto: ma il soprannome è inversamente proporzionale alle doti di guida. In quella giovane donna graziosa c’era (e c’è tuttora) grande energia, che le ha permesso di esprimersi ai più alti livelli con le potenti e difficili F.1 a motore anteriore come con le scorbutiche Sport, nelle gare in pista e su strada. Le doti di guida le valsero la stima e il rispetto degli altri piloti. Per il suo attaccamento alla Maserati, la de Filippis è stata nominata presidente onorario a vita del Club del Tridente; tra le tante cariche che riveste, è anche vice-presidente del Club International des Ancièns Pilotes de Grand Prix F1, socio onorario del British Racing Driver’s Club e membro del Comitato d’onore della Mille Miglia. Insomma, protagonista dell’età d’oro delle corse, e oggi del mondo dell’automobile in generale. L’abbiamo incontrata, manco a dirlo, in occasione dell’ultima “Mitiche Sport” a Bassano del Grappa, dov’era madrina della manifestazione.
Una ragazza, non ancora maggiorenne, che vuole correre in auto: non un fatto comune, in quegli anni. Come reagirono i suoi familiari?
Papà non era più vivo, ma ne sarebbe stato felicissimo. Mamma la prese con la sua solita, simpatica maniera di risolvere le cose senza fare tante storie. Mi disse: “Bambina mia, vai piano e vinci”.
Quale fu la molla interiore che la spinse verso le corse?
Fu una scommessa con i miei fratelli. Uno diceva che non sarei stata capace di di prestazioni pari agli altri piloti, l’altro sosteneva il contrario ed io ho cominciato con le prime gare: la Sorrento-Sant’Agata per esempio. Erano corse in salita, importanti per imparare a pilotare e che mi hanno sempre divertita. Correre in salita è stato entusiasmante. Bisognava partire forte e andare subito via veloci e poi continuare senza incertezze od errori, che in salita si pagano assai cari.
Quali piloti le sono stati più vicino?
Gigi Villoresi, specie quand’ero agli esordi. L’altro va a Luigi Musso, che mi ha insegnato le finezze della guida di una Formula Uno. Luigi, che chiamavo affettuosamente “Gè”, era un perfezionista. Mi ha insegnato a migliorare lo stile e a rendere più pulite e redditizie le traiettorie. Si trattava, ripeto, di finezze, ma nella guida da corsa sono molto importanti per abbassare il tempo sul giro. Un altro ringraziamento va a Jean Behra, un uomo senza paura che mi incitava ad andare sempre più forte.
Come definisce il suo stile di guida? Pensa di assomigliare a qualcuno?
Posso definirmi una stilista. Ho fatto mio quello che mi suggeriva Musso, che non era teoria, ma pratica. Mi diceva: “Siediti lì e vai”. Mi ha insegnato, tra l’altro, a partire bene, che non è poco. Non ho mai bruciato una frizione, per esempio, cosa che invece ogni tanto capitava a qualcuno. La prima volta che salii sulla Maserati 250 F di F1 fu a Siracusa. Mi fu consegnata sul circuito di gara: non l’avevo nemmeno provata prima. Lui allora prese la sua Ferrari e mi disse di seguirlo. Cominciò a girare davanti a me dettandomi le traiettorie e il ritmo che avrei dovuto tenere in gara. Ecco, se c’è qualcuno a cui posso dire di somigliare nello stile di guida è proprio Luigi Musso.
Com’era il rapporto fra voi piloti, fuori e dentro la pista?
Eravamo tutti amici. Il rischio che si correva in quegli anni creava un clima di intesa, di rispetto e di reale amicizia. I circuiti e le macchine non erano sicuri come oggi: la morte era sempre in agguato e uscire da un incidente con qualche osso rotto era una vittoria. In pista si duellava, ma fuori eravamo un gruppo molto affiatato. Allora, inoltre, non si guadagnava come oggi. Si correva per passione pura e per divertimento. Sì, c’erano i premi, gli ingaggi, ma spesso i piloti dovevano mettere i soldi di tasca propria. Io le auto da corsa le ho acquistate e pagate. In più c’era la possibilità di conoscere i campioni che correvano in F1 incontrandoli nelle gare riservate ad altre categorie. Fu così che, quando approdai alla F1, almeno potevo dire di essere amica di qualcuno di loro che avevo conosciuto nelle gare Sport.
Ci racconti di quella volta che Alberto Ascari le fece le linguacce...
Accadde al Circuito di Posillipo, nel 1951. Durante le prove si ruppe il motore della mia auto. Mi fermai e parcheggiai la macchina in un punto particolare del circuito, dopo una discesa che terminava con una curva a gomito. Scesi e mi sedetti su una balla di paglia a guardare gli altri che passavano. Tra questi c’era Ascari. Quando si accorse che ero lì, passandomi vicino, mi mostrò la lingua sorridendo. E lo ripetè per altre due o tre volte. Non ho mai saputo il motivo. Si poteva fare: non c’era ancora il casco integrale...
Nel 1959, a Montecarlo, lei passò alla guida della Behra-Porsche RSK a motore posteriore. Com’era quella macchina?
Una vettura da corsa a motore posteriore all’epoca era una rivoluzione. Era l’auto che avrei dovuto pilotare nella stagione 1959. Uso il condizionale perché la scomparsa di Jean Behra in un incidente all’autodromo dell’Avus cambiò totalmente il corso degli eventi. La macchina era stata costruita a Modena da Neri e Bonacini e aveva un motore Porsche da un litro e mezzo di cilindrata per la F2. Era una monoposto veloce ma non la conoscevo perché l’avevano portata al circuito solo il giorno prima del GP. Non avevano fatto in tempo nemmeno a verniciarla. Feci alcuni tentativi per qualificarmi, ma nulla da fare: il tempo non usciva. La provò anche Hans Herrmann, ex-pilota Mercedes, che peraltro non riuscì a girare nemmeno sui miei tempi, anche se bisogna dire che l’abitacolo era stato costruito sulle mie misure e un uomo alto e robusto come Herrmann dentro quell’angusto spazio si trovava a disagio. Alla fine, comunque, la qualifica saltò fuori e Jean (Behra, che corse quel GP con una Ferrari, n.d.r.) e i meccanici non stavano nella pelle dalla contentezza. A quel punto però arrivò la doccia fredda: l’organizzazione mi escluse dallo schieramento perché, secondo loro, il giro buono per la qualifica era stato fatto quando il tempo a disposizione per le prove era scaduto. Non era vero: dissero questo per ragioni politiche, per ammettere al via Cliff Allison, pilota Ferrari, che altrimenti sarebbe stato escluso. Almeno, così mi fu detto. Fu un vero e proprio scandalo. Rimasi fuori dallo schieramento di partenza e mi misi a piangere per la rabbia. Il resto della stagione fu condizionato dal diverbio che Jean Behra ebbe con Enzo Ferrari e che lo portò ad abbandonare Maranello. Poco tempo dopo, il 1° agosto 1959, Jean perse la vita.
Fu in quel momento che maturò la decisione di abbandonare le corse?
Sì. Avevo visto morire prima Luigi Musso, poi Jean Behra. Mi trovavo a Riccione quel giorno, a casa di amici, e appresi la notizia alla radio.
In un mondo declinato al maschile, lei ha dato di sè un’immagine squisitamente femminile, con una particolare cura della persona e del vestire. Maria Teresa de Filippis era sempre elegante e non aveva mai niente fuori posto.
Beh, quando scendevo dalla macchina non era proprio così: avevo, come tutti, il viso sporco di nero, però, dopo essermi lavata e cambiata, ritornavo ad essere “la signorina F1”, magari con in testa il foulard che a me piaceva.