Che risalta in pieno sul piano meccanico, dove la GM surclassa gli avversari con un “piatto” ottimamente cucinato; ne illustriamo la ricetta. Si prende una berlina di classe medio alta, tanto per stare in tema con quanto fatto dalla concorrenza, già ottimamente motorizzata (la Opel Omega 3.0i 24V era una vettura già in grado di soddisfare palati finissimi) e, da Rüsselsheim in Germania dove è nata, la si trasferisce via nave presso un atelier che, nella fattispecie, è il già citato quartier generale della Lotus a Hethel, dove per lei è stata allestita una linea ad hoc.
Là entrano in azione i chirurghi che cominciano dal motore: la cilindrata sale da tre a 3,6 litri attraverso la sostituzione dell’albero motore con uno irrobustito e dalla corsa maggiore; i pistoni sono sostituiti con dei Mahle raffreddati da getti d’olio; lo spinterogeno è sostituito da tre bobine gestite da un computer EMS (Engine Management System); a lato scarico sono applicati due piccoli turbocompressori Garrett T25, ognuno al servizio di tre cilindri, con l’aria compressa raffreddata da un intercooler davanti al radiatore e a sua volta raffreddato a liquido.
Quelle piccole giranti, dotate ognuna della propria waste-gate, hanno pochissima inerzia e spingono forte già a basso regime, tanto che a 2.000 giri sono disponibili ben 41,5 kgm; la potenza di 377 CV è competitiva con quella espressa dalle più esotiche supercar del periodo, come la Ferrari Testarossa (390 CV), la Maserati Shamal (326 CV), la Porsche 928 GT (330 CV) e la leggendaria prima versione della Chevrolet Corvette ZR1 (383 CV).
Quest’ultima, essendo parente per parte di madre (la GM), ha rischiato di condividere con l’Omega Lotus il suo modernissimo motore V8 a 32 valvole ma, visto che non si riusciva proprio a farlo stare nell’apposito vano, le ha lasciato, come consolazione, il cambio ZF a sei marce, l’unico disponibile in famiglia in grado di gestire tanta prestazione: è un cambio dalla rapportatura extra lunga che, nonostante la manovrabilità un poco “legnosa”, ci pare tutto sommato adatto anche alle caratteristiche di questa superberlina. Non sono tanto gli 80 km/h in prima, o i 160 in terza, ad impressionare, quanto i 290 in quinta e i 72 km/h a 1.000 giri in sesta, così che a 130 il motore sussurra a 1.800 giri. Meno male che, come abbiamo visto, la coppia non manca.
Un fatto che aiuta anche, volendo, a cambiare il meno possibile: cosa gradita perché per l’azionamento della frizione da 24 cm di diametro è meglio prevedere un breve ciclo di esercizi in palestra nonostante si sia tentato di addomesticarla con una molla a diaframma che lavora in trazione anziché in compressione; si prosegue nel reparto trasmissione con il relativo albero che è stato suddiviso in tre sezioni, collegate tra loro da giunti omocinetici, con l’ultima che confluisce in un differenziale autobloccante al 40%.
Il telaio non è stravolto rispetto a quello della Omega 3.0i 24V, ma soltanto adeguato al quasi raddoppio della potenza da gestire: le modifiche sono concentrate al retrotreno, dove due puntoni collegano la scocca alla struttura in lamiera che sostiene i bracci in modo da meglio guidarli quando si trovano sotto sforzo nelle accelerazioni all’uscita di curva; intervento che porta a un allungamento del passo di 18 mm, che contribuisce alla stabilità in rettilineo alle altissime velocità.
I freni, della AP, sono dischi autoventilanti da 330 mm davanti e da 300 mm dietro, assistiti dall’ABS, con quelli anteriori bloccati da pinze a quattro pistoncini; i cerchi e gli pneumatici hanno misure differenziate sui due assi: 8,5x17” calzati 235/45 davanti e 9,5x17” con gomme 265/40 dietro.