Nel 1972, nonostante la distanza temporale dalla presentazione, la Montreal ha comunque un ottimo successo di vendite, considerando il posizionamento in gamma della macchina e il relativo prezzo di 5,4 milioni di lire: ne sono consegnati poco meno di 2.400 esemplari, che si aggiungono ai quasi 700 consegnati nella seconda metà del 1971. Un successo che sarà presto frustrato da un 1973 nero, causa guerre, prezzo del petrolio, domeniche a piedi, terrorismo e quant’altro: i numeri precipitano a 302. Dopodiché la produzione va avanti, di rimessa, fino al 1977.
In quegli anni il settore delle GT è frequentato da modelli come BMW 3.0 CSL, Citroën SM, Dino 246 GT, che costano più o meno come la Montreal, e la Lamborghini Urraco P250, che costa circa un milione in più, e la Fiat Dino Coupé, che invece costa un milione in meno. Una rosa di concorrenti piuttosto importante, a cui va aggiunta quella che all’epoca si è già conquistata una solida fama presso gli appassionati: la Porsche 911.
A Stoccarda la situazione è radicalmente diversa rispetto ad Arese. La società è quasi a conduzione familiare, non ci sono particolari problemi di politica industriale, né grosse vertenze sindacali e il lavoro nella fabbrica procede in serenità. La Porsche ha dalla sua anche il fatto di produrre in sostanza un solo modello di auto, al contrario dell’Alfa Romeo che è una grandissima industria “generalista”, seppure con una impronta di “guida brillante”. In quel momento storico la Casa italiana avrebbe tutte le potenzialità per “fare (anche) la Porsche”, mentre la Casa tedesca difficilmente potrebbe impegnarsi nel costruire tranquille berline o addirittura utilitarie (né, naturalmente, ci pensa minimamente). Però a Stoccarda le idee sono molto chiare, non ci sono lacci politici e la progettazione è in mano a pochi uomini che, guidati da Ferry e Butzi Porsche, figlio e nipote del mitico capofamiglia Professore Ferdinand, con la direzione tecnica di Ferdinand Piëch, cugino di Butzi, remano tutti nella stessa direzione. Così, nel giro di 10 anni, la 911 a sei cilindri si è imposta come e più della progenitrice 356, secondo la filosofia dello sviluppo continuo, a piccoli ma decisi passi, del progetto iniziale. E basta fare un confronto tra i numeri di produzione della Montreal e quelli della sola 911 S 2,4 per rendersi conto della differenza.
Partita nel 1963 con motore 2.0 da 130 CV, la 911 è cresciuta dapprima a 2.2, poi con il “model year” 1972 la cilindrata sale ancora a 2.4 (interessante, a proposito di organizzazione aziendale e per sottolinearne la differenza con le realtà italiane, la gestione dei “model year”: a Zuffenhausen la produzione si interrompe a luglio, e ad agosto ricomincia con i modelli dell’anno dopo; perciò, il modello 1972, per esempio, è in vendita dal settembre 1971).
Dall’esordio, la 911 è stata diversificata negli allestimenti e nelle carrozzerie: al coupé si è affiancata la “Targa” con tetto asportabile, entrambi disponibili in allestimento “T”, “E” ed “S”. Sul modello del 1972, la cilindrata è aumentata a 2.4, questa volta con l’incremento della sola corsa.
Gli aggiornamenti sono continui, non sempre riusciti (emblematico il caso del serbatoio olio con sportello esterno, che manda in confusione più di un benzinaio, con il risultato di mettere benzina…) ma sempre tesi a perfezionare, senza mutare, un progetto che funziona. La Porsche 911 si impone sempre più sul mercato, anche grazie alle numerosissime possibilità di personalizzazione, dai colori esterni e interni agli accessori a pagamento, e, in misura minore ma significativa, al fatto di poter essere usata per partecipare a competizioni nel fine settimana senza richiedere eccessive preparazioni e recandosi in circuito alla guida della vettura stessa.