Alfa Romeo Montreal vs Porsche 911 2.4 S

L’italiana all’Expo canadese del ‘67 incarnò il desiderio automobilistico in termini futuribili. La tedesca si basava su doti concrete e fama consolidata, oltre che su uno sviluppo “passo dopo passo”. Divise dal punto di vista commerciale (anche oggi come “storiche”) hanno prestazioni del tutto comparabili e tecniche opposte ma tecnologia confrontabile

Nel 1967 il mondo è attraversato da una miscela di avvenimenti contrastanti. Il cardiologo sudafricano John Barnard effettua il primo trapianto di cuore della storia, sensazionale passo della medicina e della scienza che, nell’immaginario collettivo, rappresenta il primo passo verso la realizzazione del mito di Prometeo. D’altro canto, in Vietnam infuria una guerra incomprensibile all’opinione pubblica, che vede una “superpotenza”, gli Stati Uniti, attaccare un piccolo paese rurale. Proprio nei confronti di questa guerra la contestazione, non soltanto giovanile, fa breccia e si salda a quella già presente in larga parte della società europea per motivi socio-economica. In America si svolgono grandiose marce per la pace, soprattutto in California, la gente non sa come gestire il rimorso derivante dal conflitto, molti giovani, chiamati alla leva militare per essere spediti nel Sud-Est asiatico, disertano in Canada. Sono i prodromi del “Sessantotto”.

Proprio la confederazione canadese in quell’anno compie un secolo di storia, festeggiato con l’organizzazione dell’Esposizione Universale a Montreal. In un periodo storico così ricco di difficoltà, in cui il mondo pare sull’orlo di una catastrofica terza guerra mondiale, gli organizzatori dell’Expo decidono di affidare all’automobile il compito di far sognare alla gente un futuro positivo. Chiedono a un Costruttore di realizzare “la massima aspirazione dell’uomo d’oggi in fatto di automobili”, nell’ambito del settore riservato alle nuove conquiste industriali, di fatto, al progresso in senso generale. Dunque, l’Auto Ideale.

A dar vita ad un progetto così prestigioso viene chiamata l’Alfa Romeo, a testimonianza della sua fama internazionale, che interpella Bertone per la realizzazione della linea della vettura. E anche questa scelta non è casuale: il carrozziere di Caprie ha stupito il mondo, non soltanto automobilistico, un paio d’anni prima con la Lamborghini Miura, una supercar dalla linea sensazionale.

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La Montreal, come si chiama l’automobile in omaggio alla città del Quebec che la ospita, ha un successo oltre le aspettative, tanto che l’Alfa Romeo decide di darle un seguito produttivo. Anche perché, benché sia un prototipo, è completa e quasi pronta per l’industrializzazione. Al momento della presentazione canadese, in Alfa Romeo è considerata una sorta di “super” Giulia, anche perché monta il bialbero 4 cilindri 1.6 sulla base del telaio della 1750.

Ma la macchina arriverà sul mercato molto in ritardo, soltanto quattro anni dopo. L’Alfa Romeo, anche al netto delle enormi vertenze politiche e sindacali che incidono sulla quotidianità della fabbrica, è impegnata nell’enorme progetto dell’Alfa Sud, che prevede la costruzione del nuovo modello e la realizzazione dell’intero sito industriale che la produrrà, a Pomigliano d’Arco (senza contare che nel 1971 si inaugura lo stabilimento di Arese); nonché nel progetto dell’Alfetta, e ancora in importanti passaggi di mano a livello dirigenziale. Eppure, la dirigenza dell’Alfa decide che la Montreal debba essere la punta di diamante della sua gamma, l’auto con le prestazioni più elevate. Si ritiene perciò adeguato pensare di montarvi nientemeno che il V8 della “33 Stradale”, la favolosa auto disegnata da Scaglione derivata a sua volta da quella da corsa che ha debuttato, proprio nel 1967, nelle competizioni internazionali per vetture sport-prototipo, conquistando fin da subito una notevole serie di vittorie. Naturalmente il motore, in origine di due litri, è addolcito e adattato al montaggio su un’automobile di serie, rispetto alla vettura da corsa ma anche alla Stradale, che aveva mantenuto una notevole grinta sportiva, con una potenza di ben 230 CV a 8.800 giri da una cilindrata di soli due litri. Una vettura, quella, difficile da realizzare e ancor più da vendere e gestire: né la fabbrica, né la rete commerciale ne erano in grado. E infatti se ne realizzeranno soltanto 12 esemplari completi. Per la Montreal si decide allora di portare il motore a 2,6 litri (aumentano sia l’alesaggio sia la corsa), una cilindrata che consente di mantenere una potenza molto elevata (230 CV-SAE, 200 DIN a 6.500 giri) ma a un regime molto inferiore rispetto alla 33 Stradale, con una coppia 24,8 kgm a 5.100 giri contro i 21 kgm a 7.000 giri del 2.0. Dunque resta un motore sportivo, ma gestibile da tutti, rete di assistenza compresa. Il telaio mantiene lo schema Giulia, con l’aggiunta di freni a disco autoventilanti e un assetto rivisto per prestazioni che vedono la velocità massima raggiungere i 220 km/h. Le difficoltà tecniche principali vengono dalla ricerca di un cambio adeguato, che è poi trovato in uno ZF a 5 marce. Ma anche l’estetica è ridefinita: la Montreal definitiva è meno filante del prototipo visto in Canada, il motore V8 ha altri ingombri rispetto a quello della Giulia, e l’allestimento finale deve tenere conto del comfort promesso agli occupanti, almeno quelli anteriori, perché dietro di spazio ce n’è proprio poco: formalmente la macchina è una 2+2, ma di fatto la panchetta posteriore offre una sistemazione men che di fortuna: lo spazio per le gambe, semplicemente, non c’è. Le sette feritoie che caratterizzano la fiancata dietro l’abitacolo diventano sei sulla versione definitiva, nonostante sia un po’ meno slanciata e un po’ più alta del prototipo originario. Il cofano motore, per ospitare il V8, ha un vistoso rigonfiamento che Marcello Gandini, autore del disegno, dissimula con una finta presa d’aria “Naca”; i cerchi della presentazione, molto originali, sono sostituiti con Campagnolo a lamelle radiali.

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Nel 1972, nonostante la distanza temporale dalla presentazione, la Montreal ha comunque un ottimo successo di vendite, considerando il posizionamento in gamma della macchina e il relativo prezzo di 5,4 milioni di lire: ne sono consegnati poco meno di 2.400 esemplari, che si aggiungono ai quasi 700 consegnati nella seconda metà del 1971. Un successo che sarà presto frustrato da un 1973 nero, causa guerre, prezzo del petrolio, domeniche a piedi, terrorismo e quant’altro: i numeri precipitano a 302. Dopodiché la produzione va avanti, di rimessa, fino al 1977.

In quegli anni il settore delle GT è frequentato da modelli come BMW 3.0 CSL, Citroën SM, Dino 246 GT, che costano più o meno come la Montreal, e la Lamborghini Urraco P250, che costa circa un milione in più, e la Fiat Dino Coupé, che invece costa un milione in meno. Una rosa di concorrenti piuttosto importante, a cui va aggiunta quella che all’epoca si è già conquistata una solida fama presso gli appassionati: la Porsche 911.

A Stoccarda la situazione è radicalmente diversa rispetto ad Arese. La società è quasi a conduzione familiare, non ci sono particolari problemi di politica industriale, né grosse vertenze sindacali e il lavoro nella fabbrica procede in serenità. La Porsche ha dalla sua anche il fatto di produrre in sostanza un solo modello di auto, al contrario dell’Alfa Romeo che è una grandissima industria “generalista”, seppure con una impronta di “guida brillante”. In quel momento storico la Casa italiana avrebbe tutte le potenzialità per “fare (anche) la Porsche”, mentre la Casa tedesca difficilmente potrebbe impegnarsi nel costruire tranquille berline o addirittura utilitarie (né, naturalmente, ci pensa minimamente). Però a Stoccarda le idee sono molto chiare, non ci sono lacci politici e la progettazione è in mano a pochi uomini che, guidati da Ferry e Butzi Porsche, figlio e nipote del mitico capofamiglia Professore Ferdinand, con la direzione tecnica di Ferdinand Piëch, cugino di Butzi, remano tutti nella stessa direzione. Così, nel giro di 10 anni, la 911 a sei cilindri si è imposta come e più della progenitrice 356, secondo la filosofia dello sviluppo continuo, a piccoli ma decisi passi, del progetto iniziale. E basta fare un confronto tra i numeri di produzione della Montreal e quelli della sola 911 S 2,4 per rendersi conto della differenza.

Partita nel 1963 con motore 2.0 da 130 CV, la 911 è cresciuta dapprima a 2.2, poi con il “model year” 1972 la cilindrata sale ancora a 2.4 (interessante, a proposito di organizzazione aziendale e per sottolinearne la differenza con le realtà italiane, la gestione dei “model year”: a Zuffenhausen la produzione si interrompe a luglio, e ad agosto ricomincia con i modelli dell’anno dopo; perciò, il modello 1972, per esempio, è in vendita dal settembre 1971).

Dall’esordio, la 911 è stata diversificata negli allestimenti e nelle carrozzerie: al coupé si è affiancata la “Targa” con tetto asportabile, entrambi disponibili in allestimento “T”, “E” ed “S”. Sul modello del 1972, la cilindrata è aumentata a 2.4, questa volta con l’incremento della sola corsa.

Gli aggiornamenti sono continui, non sempre riusciti (emblematico il caso del serbatoio olio con sportello esterno, che manda in confusione più di un benzinaio, con il risultato di mettere benzina…) ma sempre tesi a perfezionare, senza mutare, un progetto che funziona. La Porsche 911 si impone sempre più sul mercato, anche grazie alle numerosissime possibilità di personalizzazione, dai colori esterni e interni agli accessori a pagamento, e, in misura minore ma significativa, al fatto di poter essere usata per partecipare a competizioni nel fine settimana senza richiedere eccessive preparazioni e recandosi in circuito alla guida della vettura stessa.

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Nell’abitacolo della Montreal spicca il bel volante a calice Hellebore con corona in radica, una dotazione tipica dei “Biscioni” dei primi anni ‘70. La posizione di guida è leggermente più sacrificata rispetto a quella della Porsche, ma corretta per persone di statura media. La Montreal era molto ben rifinita, con dotazioni “importanti” come gli alzacristalli elettrici e condizionatore di serie

Per confrontare oggi le due vetture e i rispettivi mondi che rappresentano nell’ambito dell’automobilismo storico, abbiamo riunito due appassionati per un giro nella zona del varesino, un percorso misto di curve, in una bella giornata autunnale. Si sono presentati in tre, perché la Montreal è in condivisione, e subito c’è una sorpresa: dei due proprietari dell’Alfa Romeo, uno, Luca, è anche (e soprattutto) un… “porschista” (l’altro, Francesco, è un noto specialista del Biscione):

La Montreal è una macchina fantastica, e lo dico da appassionato Porsche che ovviamente apprezza molto anche la 911

D’altra parte, l’Alfa Romeo è una grande Casa che ha saputo arrivare al cuore degli appassionati, non lo scopriamo adesso”. Ma com’è da guidare? “Come per ogni Alfa Romeo di quegli anni -risponde Luca senza esitazioni- il meglio viene dalla meccanica. Il motore è super, spinge tanto a tutti i regimi e, anche se il cambio si può usare pochissimo, è assistito da una trasmissione eccezionale, il cambio ZF all’epoca era un sogno, e ancor oggi funziona alla grande”. I difetti, invece? “È un paradosso -sospira Luca-, ma purtroppo devo dire sempre il motore. L’assetto è sbilanciato perché il V8 pesa tanto. Doppio paradosso, perché la 911 ha lo stesso problema, al… contrario. Ma sulla Porsche il peso a sbalzo al posteriore per lo meno aiuta molto nelle prestazioni assolute, soprattutto in accelerazione. Sull’Alfa invece rende anche molto pesante lo sterzo, nelle manovre da fermo e a bassa velocità. L’autostrada è la situazione dove la Montreal rende meglio, se escludiamo il consumo di benzina. I freni, invece, sono sottodimensionati, nonostante all’epoca l’Alfa Romeo li decantasse nelle sue pubblicità”. Perciò oggi perché si vuole una Montreal? “Per la sua storia, per il marchio, per la linea libidinosa -sorride Luca-. Per i ricordi di bambino, quando la vedevi in giro, raramente, e sembrava un’astronave e sapevi che aveva il motore dell’auto che avevi visto correre alla 1000 Chilometri di Monza la domenica. Infine, perché quelle che si trovano in genere sono poco sfruttate, al contrario delle 911. Questa, per esempio, ha meno di 70.000 km”. Ma da guidare su queste curve, alla fine, com’è? “Per nulla semplice -conferma il nostro -. Finché si tratta di sfruttare motore e cambio va tutto bene, ma lo sterzo è molto demoltiplicato e il rollio è evidente. Se scendi da una Montreal e sali su una 911, oggi, ti rendi conto del motivo per cui all’epoca non ci fu storia, dal punto di vista commerciale. Purtroppo fu un progetto fin troppo avveniristico, soprattutto perché montare un V8 derivato da un’auto da corsa, a quel tempo, non era facile per nessuno, nemmeno per una grande Casa”. Perciò, ragionando da alfista, dalla 911 prenderesti… “La facilità di guida -dice senza esitazioni-. Aggiungo due considerazioni: probabilmente, pur con tutto quanto detto, se l’Alfa Romeo non avesse avuto le contraddizioni e i problemi che sappiamo legati al periodo storico, la Montreal sarebbe stata perfezionata estraendone tutte le potenzialità. Di certo non mancavano le risorse tecniche e umane per farlo. Porsche era un progettista finissimo, e da loro si lavorava con maggiore tranquillità.

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Anche il nostro “porschista”, Carlo, è un appassionato di auto tout-court, ma ha una nettissima predilezione per le 911. E per le auto “non nuove” in generale. Oltre alle 911, ha due Mercedes, una 190 D 2.5 ereditata da mio suocero, del 1988 con 416.000 km, e una C180 automatica del ’96.

Ma le Porsche sono il suo grande amore. Un colpo di fulmine: “Nel 1982 -racconta- un mio amico aveva appena acquistato una 911 RS Lightweight. Perciò decise di vendere la 2.4 T del 1972, con il tappo dell’olio esterno. Mi dissi, perché no, e la comprai, per 4,5 milioni di lire, 3 in contanti e 1,5 come permuta di una moto Fantic 125 da Trial”. Una cifra quasi ridicola, anche tenendo conto che parliamo di 40 anni fa… “Si, all’epoca c’era una bella inflazione -ricorda Carlo-, perciò quella cifra era veramente poca cosa. Il fatto è che allora di 911 ce n’erano in giro tante, in Italia avevano avuto un gran successo. Scoprii in seguito, su una rivista, che l’Italia era addirittura il terzo mercato mondiale per le Porsche 911: tra il 1969 e il 1974 se ne vendettero oltre cinquemila, una cifra notevole. Quindi i prezzi erano molto bassi, perché c’era molto ricambio e non era semplice rivenderle. Inoltre, molto spesso erano automobili poco sfruttate, a volte pochissimo. Il risvolto della medaglia era che molti le aggiornavano nell’estetica al modello successivo, così trovavi magari delle 2.2 o 2.4 T o E aggiornate a 2.7 / 3.0 / 3.2, addirittura tra fine anni ’80 e inizio anni ‘90 modificate in Speedster o 964”. Come proseguì l’andamento del mercato? “In quegli stessi anni era agli albori il mondo delle auto storiche come lo intendiamo oggi, nascevano le prime riviste sul tema e si iniziava a considerare meritevoli di collezione non soltanto le auto allora considerate d’epoca, cioè quelle d’anteguerra. Arrivati al 2000, la disponibilità iniziò a calare un po’, di conseguenza i prezzi presero a salire: per una bella 911 T si pagavano 10/12 milioni di lire, per una “S” dai 15 ai 18”. Ma cosa ti ha fatto innamorare della 911? “Beh, quello che ha fatto innamorare centinaia di clienti -confessa Carlo-. Ricordo un manifesto pubblicitario degli anni ’70, famoso. La 911 era in mezzo, il poster diviso in due sulla verticale; da una parte c’era un guidatore in abiti civili, dall’altra la stessa persona con tuta e casco. Mi ha affascinato, perché al di là dello stereotipo indica la facilità di guida della macchina. La 911 ha sempre avuto prestazioni elevate ma alla portata di tutti. Con questo non significa che sia un’auto semplice da guidare velocemente, tutt’altro, ma a parità di impegno di guida con la 911 vai più forte che con le altre, soprattutto se parliamo degli anni dai ‘60 agli ’80. E se vuoi andare a spasso, è facile come un’utilitaria, cosa che sulle altre sportive coeve non accade”. Quindi anche tu la usi spesso? “Certo, sempre! Ho anche una 2.4 T con allestimento invernale, gomme da neve su cerchi ATS e portasci, che uso periodicamente. Io e mia moglie ci viaggiamo comodamente”.

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Motore Tipo AR00564 Anteriore longitudinale, 8 cilindri a V di 90° Alesaggio e corsa 80 x 64,5 mm Cilindrata 2.593 cc Rapporto di compressione 9:1 Potenza 200 CV DIN a 6.500 giri Coppia 24,5 kgm DIN a 4.750 giri Distribuzione bialbero a camme in testa, 2 valvole per cilindro Alimentazione iniezione meccanica Spica Lubrificazione forzata, carter secco (capacità serbatoio 8,5 litri) Raffreddamento ad acqua con pompa centrifuga Impianto elettrico 12 Volt Alternatore 720 Watt Batteria 64 Ah Trasmissione Trazione posteriore Frizione monodisco a secco a comando idraulico Cambio ZF a 5 marce + RM Rapporto al ponte 4,1:1 Ruote cerchi Campagnolo in Elektron 6,5x14” Pneumatici anteriori e posteriori 195/70 VR14 Corpo vettura Coupé due porte, 2+2 posti Sospensioni anteriori a ruote indipendenti, quadrilateri trasversali, ammortizzatori idraulici, molle elicoidali, barra antirollio Sospensioni posteriori assale rigido con due puntoni longitudinali e triangolo di reazione trasversale, ammortizzatori idraulici, molle elicoidali, barra antirollio Freni anteriori e posteriori a disco ventilato Sterzo a circolazione di sfere Burman Capacità serbatoio carburante 63 litri Dimensioni (in mm) e peso Passo 2.350 Carreggiata anteriore 1.374 Carreggiata posteriore 1.340 Lunghezza 4.220 Larghezza 1.672 Altezza 1.205 Peso a vuoto 1.270 kg Prestazioni Velocità massima oltre 220 km/h Accelerazione 1 km da fermo 28 secondi

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Motore Tipo 911/53 Posteriore a sbalzo Boxer 6 cilindri Alesaggio e corsa 84 x 70,4 mm Cilindrata 2.341 cc Rapporto di compressione 8,5:1 Potenza 190 CV a 6.500 giri Coppia 22 kgm a 5.200 giri Distribuzione monoalbero a camme in testa, 2 valvole per cilindro (ø 46 mm ammissione, 40 mm scarico) Alimentazione iniezione meccanica Bosch Lubrificazione forzata, carter secco (capacità 9 litri) Raffreddamento ad aria forzata Impianto elettrico 12 Volt Dinamo 770 Watt Batteria 36 x 2 Ah

Trasmissione Trazione posteriore Frizione monodisco ø 225 mm Cambio tipo 915/12 a 5 marce + RM Rapporto al ponte 4,492:1 Ruote cerchi Fuchs in lega leggera 6x15” Pneumatici anteriori e posteriori 185/70 VR15 Corpo vettura Coupé due porte, 2+2 posti Sospensioni a ruote indipendenti, anteriori schema McPherson, triangolo inferiore, ammortizzatori idraulici, molle a barra di torsione, barra antirollio ø 15 mm; posteriori semiasse oscillante collegato a barra di torsione trasversale con puntone longitudinale, barra antirollio ø 15 mm Freni anteriori e posteriori ATE a disco ventilato Sterzo ZF a pignone e cremagliera Capacità serbatoio carburante 85 litri Dimensioni (in mm) e peso Passo 2.271 Carreggiata anteriore 1.360 Carreggiata posteriore 1.342 Lunghezza 4.127 Larghezza 1.610 Altezza 1.321 Peso a vuoto 1.075 kg Prestazioni Velocità massima 230 km/h

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