31 January 2014

Ivan Capelli: "Ferrari straniera"

Giovani piloti crescono. Sembra ieri quando Ivan Capelli era una promessa della scuola italiana. È stato pilota ufficiale Ferrari nel 1992, una delle stagioni più opache, per il buco nero in cui era precipitato il Cavallino dopo gli anni di Prost e Mansell e prima dell’era Schumacher.

Ivan Capelli: "Ferrari straniera"

Il 24 maggio 2013 Ivan Capelli ha compiuto cinquant’anni e oggi, alla vigilia di un traguardo importante, lancia un appello per aiutare i giovani talenti italiani, assenti
dalle griglie di partenza dei GP di F1 per il secondo anno consecutivo.

Leggi la nostra intervista

La Ferrari aiuta i piloti italiani?

Non quanto potrebbe. Non dimentichiamo che l’ultimo pilota italianoa vincere a Monza su una Ferrari è stato Ludovico Scarfiotti. Correva l’anno 1966. Fra tre anni è mezzo secolo…

Perché la Ferrari apre le porte ai piloti stranieri e le tiene chiuse agli italiani?

Perché gli italiani sono tendenzialmente esterofili e non hanno una grande considerazione dei loro meriti, delle loro risorse. Io ho vissuto in prima persona questo modo di pensare e di agire, nel 1992, quando alla Ferrari il mio compagno era Jean Alesi, con il quale, ci tengo a dirlo, sono rimasto in ottimi rapporti. Jean non era un personaggio facile. Eppure la squadra preferiva confrontarsi con lui e non con chi parlava la stessa lingua. Se c’era qualcosa da decidere, una modifica da adottare, decideva lui.


Stefano Modena, anche lui cinquantenne da pochi giorni, ha detto a chiare lettere che se non ci sono italiani in F1 è perché non c’è gente che se lo merita. Sei d’accordo?

Non del tutto. Può capitare che per un certo periodo una nazione non
riesca ad esprimere talenti. Ma da noi il periodo inizia a diventare un
po’ troppo lungo. Un pilota del massimo livello va formato nel tempo.
Fisichella, Trulli e Liuzzi erano molto veloci. Ma non hanno avuto le
opportunità di altri colleghi con il passaporto straniero.


Come giornalista Rai, che cosa hanno visto i tuoi occhi in giro per il mondo negli ultimi 15 anni?

Quanto è forte l’appeal della Ferrari. Sapevo quanto fosse radicata la
sua storia in Europa e negli Stati Uniti. Ma quando è iniziato il ciclo dei
cosiddetti nuovi GP, e mi riferisco in particolare a Turchia, Corea, Malesia,
Cina, Abu Dhabi, ogni volta mi ha colpito vedere che metà delle
tribune centrali, quelle davanti ai box, erano di colore rosso, piene
zeppe di tifosi Ferrari e nell’altra metà si ammucchiavano gli altri, ossia
i sostenitori di McLaren, Red Bull, Lotus, Williams.

Tu come hai iniziato? Qual è stato il tuo primo sponsor?

Mio padre. Nel 1978, quando avevo quattordici anni, ho rotto il salvadanaio
e non avevo nemmeno i soldi per comperare il casco.

E allora?

Per acquistare il primo kart è intervenuto lui. E per andare avanti,
e permettermi di arrivare dove sono arrivato, di soldi ne ha spesi
parecchi e si è ipotecato due volte la casa, all’insaputa di mia madre.
Chi pratica l’automobilismo a livello professionale si trova due o
tre volte davanti a un bivio molto importante, direi decisivo. E in quei
momenti, se davvero vuole andare avanti, deve giocarsi molto più di
quello che ha.

La tua fortuna?

Il Giappone e la fiducia che ha riposto in me il presidente della Leyton
House quando, nel 1986, ha stretto con me un accordo da quattro milioni
di dollari con una semplice stretta di mano in aeroporto. Ero in
testa al campionato di F3000, che ho poi vinto, con una vittoria e tre
podi. Gli è bastato questo. Mi sembrava una favola, un altro mondo,
perché da noi non gira così. Purtroppo non capita a tutti e mi dispiace
per i tanti piloti talentuosi che si perdono senza trovare le giuste
opportunità.

All’estero che fama hanno i driver italiani?

Pochi una buona reputazione, per gli altri la considerazione è più modesta.
Del resto, se la stessa Ferrari non crede nei piloti italiani come
è possibile che i team-manager delle squadre straniere possano
crederci?

Com’è cambiata la F1 rispetto ai tuoi tempi?

Ho fatto recentemente un confronto: oggi le F1, a parità di tracciati,
impiegano 12 secondi al giro in meno rispetto a quelle che guidavo
io vent’anni fa. Ma non c’è la percezione di questa maggior velocità
perché oggi le macchine viaggiano sui binari e non danno spettacolo.
Quando, quasi trent’anni fa, al GP del Belgio, circuito di Spa-Francorchamps,
mi buttavo giù dalla discesa che porta alla esse dell’Eau
Rouge e poi al Radillon, mi chiedevo starà dentro la macchina, ce la
farò a venirne fuori? Oggi non è più così.

Quando nel biennio 1983-1984 vinci il campionati italiano ed europeo di F3 ci sono molti italiani fra i migliori. Perché oggi quel vivaio non c’è più?

Perché allora le corse erano più abbordabili e i campionati erano pochi
ma buoni. Allora, se volevi crescere, dovevi scegliere fra Formula
Abarth e la F3. E da lì emergevano i migliori. Oggi abbiamo una miriade
di formule dove tutti sono campioni ma nessuno emerge.

Nel 1986 hai dominato la F3000. Perché da quella Formula non è mai maturato un campione del mondo di F1?

Perché allora non c’era un legame così stretto fa F3000 e F1 come c’è
invece oggi fra GP2 e F1. Inoltre la F3000 era stata inventata da Bernie
Ecclestone per riciclare i Cosworth dei vari team che avevano deciso
di passare al turbo.

Che emozioni ricordi al debutto in F1, anno 1985, passando dai 450 CV della F3000 ai 1000 del turbo?

Fu un’esperienza unica perché all’epoca non c’erano i simulatori. La
mia “prima volta” fu alle prove del GP d’Europa 1985 che si correva
a Brands Hatch. La Tyrrell aveva il motore Renault turbo. Io ero stato
chiamato per sostituire Stefan Bellof, morto alla 1000 Km di Spa.
Non avevo mai provato quella macchina, la pista non la conoscevo,
intorno a me giravano Rosberg, Senna, Prost, Patrese, insomma ero
davvero un ragazzo a “chilometri zero” e mi sentivo come un pulcino
in mezzo ai leoni.

Anche al GP d’Australia le sorprese non mancarono…

Avevo fatto un incidente il giovedì. I meccanici non si erano accorti
che il sedile si era rotto e in gara si disancorò completamente. Ho finito
la gara aggrappato al volante, la schiena martoriata, una tortura.
 

Poche parole per ogni team di F1 che hai frequentato?

In Tyrrell era tutto ridotto all’osso. Leyton House è stata la mia famiglia,
la squadra dove mi sono sentito felice; Ferrari il sogno mancato.
Ma una convergenza negativa di fattori fece sì la mia storia con Maranello,
il mio sogno, il sogno di ogni italiano che corre, non finisse come
speravo.

Perché?

Perché se alla Ferrari approdi nel momento sbagliato e sei italiano
hai ottime probabilità di bruciarti la carriera. Il fatto è che a me, all’epoca,
avevano messo davanti una scelta: o corri con la Scuderia Italia
o con la Ferrari. Io avevo già un contratto con la Scuderia Italia. E
mi dissero: “Ivan, vuoi restare lì o venire a Maranello?”. Vorrei proprio
vedere cos’avrebbe fatto un altro pilota di 29 anni, l’età che avevo io,
quando si presentò quella possibilità. E invece in alcune gare Martini
e Lehto, che avevano il motore Ferrari sulla Dallara-Scuderia Italia, a
volte viaggiavano più forte di noi…

Eppure la Ferrari F92A era anticipatrice di alcuni concetti che poi si sarebbero affermati in F1. Perché non funzionò? Quali problemi impedirono il successo?

Concettualmente l’idea di portare più aria al diffusore posteriore era
molto valida. In galleria del vento funzionava. Il problema era che varie
aree della vettura non erano competitive. A inizio anno il motore
girava molto più forte ma alcuni problemi consigliarono di abbassare
il regime massimo di rotazione. Il progetto della macchina era nato
con il cambio trasversale ed io, per metà stagione, ho corso con il cambio
longitudinale, quindi con un retrotreno completamente diverso
rispetto a Jean Alesi. Nel 1992 la Williams aveva le sospensioni attive
e andava come un treno, un secondo e mezzo più forte di noi. Infine
la Ferrari non aveva la stabilità organizzativa necessaria per competere
ai massimi livelli.
 

Tu hai lavorato a stretto contatto con Adrian Newey, che tutti vorrebbero come progettista...

Adrian è l’unico vero genio che oggi c’è in F1. Ha dato l’impronta agli
ultimi vent’anni della F1. Ha portato titoli mondiali a Williams, Mc Laren e Red Bull. Un perfezionista, un grande appassionato e anche un buon pilota. Molti non lo sanno, ma Newey guida le macchine che progetta e sa che cosa vuol dire andare forte.

Oggi che cosa serve per vincere?

Concentrazione e determinazione a livelli assoluti. Le monoposto moderne
si guidano con i bottoni e le differenze non sono più in decimi,
ma in centesimi di secondo. Bisogna credere, essere convinti che la
macchina farà quello che tu vuoi. Il pilota sa soltanto che in quella curva
deve passare in quinta e lo fa perché ci crede, perché non può materialmente
avere il controllo del mezzo che avevamo noi. E questo
per venti gare all’anno, tutte molto serrate.

Si corre ancora contro un rivale?

Non più. Schumacher con la Ferrari ha corso contro un rivale per
volta. Prima contro Damon Hill, poi contro Jacques Villeneuve, Juan
Pablo Montoya, Mika Hakkinen, David Coulthard, Fernando Alonso.
Oggi non è più così perché gli aspiranti al titolo sono tanti e li hai tutti
addosso, pronti ad approfittare di un tuo errore. Per questo Michael
ha preso tanti schiaffoni nella sua seconda vita di pilota. Ha trovato
un mondo diverso da quello in cui era abituato a correre, con tanti
vincitori.

CAMPIONE DA F1
Ivan Franco Capelli è forse l’unico campione del volante che ha rischiato di diventare un calciatore professionista. Da ragazzo entra nella formazione giovanile della Pro Sesto. Poi si redime e nel 1978 inizia a correre in kart. Vince tutto nelle formule minori: nel 1983 il titolo italiano di F3 con record di vittorie (9 su 13 gare); nell’84 il GP di Monte-Carlo di F3; nel 1986 il campionato internazionale di F3000. Nel frattempo debutta in F1, con un 4° al GP  ’Australia
su Tyrrell, sua seconda gara in F1, nel 1985. Dal 1987 è stabile in F1 su March-Leyton House. Nell’88 è secondo al GP del Portogallo 1988 e terzo al GP del Belgio, con un aspirato contro i turbo. Il team non naviga nell’oro ma crede in lui e ha l’asso nella manica di Adrian Newey: arriva così un secondo posto al GP di Francia 1990, dopo aver condotto a lungo la gara. Nel 1992 passa alla Ferrari ma la squadra è in crisi e a fine stagione è sostituito da Nicola Larini, che non avrà maggior fortuna. L’anno dopo è con Jordan ma dopo due soli GP si ritira.

DESTINATI AL RITIRO
Ivan Capelli difende a spada tratta i piloti tricolore. E si lancia in
un confronto oggettivo: “Abbiamo piloti come Emanuele Pirro
che ha vinto cinque volte la 24 Ore di Le Mans e Dindo Capello
che l’ha vinta tre volte. Eppure non sono celebrati e riconosciuti
come meriterebbero. Alcuni driver stranieri, che hanno vinto
molto meno, sono più quotati. E questo non è giusto. Molti pilotistranieri vengano in Italia a formarsi, in kart o nelle formule minori.
Fanno quello che facevano gli italiani negli anni ‘70 quando andavano a imparare in Inghilterra. Solo che gli stranieri poi diventano
famosi. I nostri invece non sono aiutati come meriterebbero e finiscono per ritirarsi.”

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